Fidel Castro: Concetto di Rivoluzione

Revolución
Es sentido del momento histórico;
es cambiar todo lo que debe ser cambiado;
es igualdad y libertad plenas;
es ser tratado y tratar a los demás como seres humanos;
es emanciparnos por nosotros mismos y con nuestros propios esfuerzos;
es desafiar poderosas fuerzas dominantes dentro y fuera del ámbito social y nacional;
es defender valores en los que se cree al precio de cualquier sacrificio;
es modestia, desinterés, altruismo, solidaridad y heroísmo;
es luchar con audacia, inteligencia y realismo;
es no mentir jamás ni violar principios éticos;
es convicción profunda de que no existe fuerza en el mundo capaz de aplastar la fuerza de la verdad y las ideas.
Revolución es unidad, es independencia, es luchar por nuestros sueños de justicia para Cuba y para el mundo, que es la base de nuestro patriotismo, nuestro socialismo y nuestro internacionalismo.

Fidel Castro Ruz (1ro de mayo del 2000)

26.7.06

Censure intelligenti


Un amico frequentatore del blog mi ha mandato questo interessante articolo che illustra bene l'ostracismo dei mezzi di informazione verso coloro che hanno delle simpatie per l'isola caraibica che non intende piegarsi ai voleri degli yankee.
C'è una censura intelligente e terribile: La censura del silenzio
"Mi sono commosso quando René, uno dei 5, ha chiesto il mio libro"
DEYSI FRANCIS MEXIDOR
Del libro "Mañana, Cuba?" (Red Editores, ottobre 2005) i mezzi di stampa non hanno detto neanche una parola e il suo autore, Andres Sorel, sembra essere uno scrittore scomodo per i canoni del sistema.
"Qui la politica del silenzio è come... se non esistesse", ha confessato al quotidiano Granma in un incontro nella sede madrilena dell'Associazione Collegiale degli Scrittori della Spagna, della quale è segretario generale.
La sua aperta posizione in difesa dell'Isola, espressa nel libro, le sue critiche alla politica di guerra dell'amministrazione di Bush ed alle disuguaglianze di questo mondo, l'hanno condannato all'ostracismo mediatico.
"Figurati che adesso sto lanciando due nuovi libri: "Siglo XX, tiempo de canallas" e "El Falangista vencido y desarmado" ha detto "e sto ancora aspettando qualche parola sui giornali".
Per Sorel è impossibile allontanarsi dalla strada tracciata: "Io non scrivo per dare gusto al potere o accettare le leggi del mercato e così è logico che io sia respinto da ogni parte".
È per questo che lo si ignora e gli si nega l'uso pubblico della parola, a dispetto della sua profusa opera letteraria, cominciata verso il 1966, che comprende più di 46 titoli.
Lui si riferisce alla censura. "Qui, quella che abbiamo, è una censura intelligente e terribile. È la censura del silenzio e i fatti anteriori che ho esposto la avallano. Va contro tutto quello che non è in linea corretta".
- E rispetto a Cuba?-
"In Spagna i mezzi di comunicazione hanno pluralità d’opinioni in molti aspetti e ci sono grandi differenze per altri luoghi comuni. Se prendi il giornale El Pais o prendi ABC o La Razon, se ascolti la catena COPE, se vedi Antenna 3 o la CNN, c'è diversità di opinioni per molti aspetti, ma c'è unanimità nel caso di Cuba, non esistono differenze nel trattamento che viene dato, è assolutamente unanime l'attacco e ubbidisce ad una linea ideologica che risponde ad interessi politici ed economici".
- Qual’è la singolarità degli attacchi?-
"Per esempio, le pressioni politiche che esercita l'ambasciata degli Stati Uniti a Madrid non sono un segreto. È qui come un faro permanente di aiuto a tutto ciò che va contro la rivoluzione cubana, d’appoggio, da una parte, nei mezzi di comunicazione alle pressioni indirette attraverso investimenti pubblicitari in annunci di determinate compagnie ed imprese, a patto che mantengano una linea critica su quello che li disturba di Cuba. Inoltre offrono aiuto ai dissidenti cubani che vivono o passano per la Spagna per l'organizzazione di congressi, simposi e conferenze internazionali per attaccare l'Isola".
- E quando parlano di terrorismo?-
"Il terrorismo l'esercita chi che ha più mezzi. Gli Stati Uniti sono eredi del terrorismo che ha praticato l'Inghilterra nelle sue colonie nel XIXºsecolo. Il vero terrorismo di Stato lo realizza il governo degli Stati Uniti, che ha le maggiori armi nucleari del mondo, che ha il terrore atomico, gli aeroplani spie, le bombe intelligenti coi loro bombardamenti televisivi. Il paese terrorista, è quello che aspira ad esercitare il terrorismo mondiale perchè nessuno vi possa resistere. Rispetto a Cuba, io credo che dallo stesso momento del trionfo della Rivoluzione, nel 1959, le amministrazioni statunitensi hanno progettato e praticato il terrorismo contro questa nazione in molte forme: il blocco, che non è più che un terrorismo economico; le invasioni, i sabotaggi, le violazioni dello spazio aereo. Tutto questo lo ha sofferto il tuo paese e non si è mai arreso.
Per questo motivo necessitano e proteggono terroristi come Luis Posada Carriles che non esisterebbero se non fosse per l'appoggio che ha dato loro gli Stati Uniti".
"Mañana, Cuba" è un libro sincero ed appassionato. Io dichiaro che sono un innamorato assoluto di Cuba ed inoltre per noi, quelli che lottammo contro il franchismo, il 1959 fu, senza dubbio, l'anno più importante delle nostre vite, fu la speranza di una nuova formulazione di sviluppo umano, con una nuova politica. In "Mañana, Cuba" non credo di rivelare la verità assoluta, ma sì confesso che il titolo cerca di rispondere alla domanda di non poche persone che discutono su che cosa passerà con Cuba dopo Fidel Castro. Nel mio libro difendo l’Isola e dico che Cuba continuerà ad essere Cuba, che per me è la sintesi di tutti i risultati della Rivoluzione. Più di 10 anni fa, il giorno dopo la caduta del Muro di Berlino, centinaia di giornalisti facevano scommesse all’Avana su come sarebbe caduta Cuba. Ma l'Isola non ha fatto mai naufragio. Questo è l'insegnamento.
Mi ha emozionato molto che René González, uno dei Cinque cubani sequestrati negli Stati Uniti, abbia chiesto il mio libro, "Mañana Cuba". Mi emoziona, perché a dispetto del silenzio che c’è nei mezzi di comunicazione, su di me, un uomo come René, dalle carceri dove ingiustamente mantengono lui ed i suoi compagni, sa che esisto". (Cubadebate)

17.7.06

Noi e la guerra


Annalisa mi ha mandato questo articolo pubblicato su l'Unità del 18 giugno 2006, lo trovo tremendamente attuale e perciò ho deciso di pubblicarlo. Proprio oggi che la Camera dei Deputati ha approvato il rifinanziamento della "missione" in Afganistan.

Noi e la Guerra
di Gino Strada

Caro Furio, grazie di avere scritto un altro dei tuoi «commenti» intelligenti e intellettualmente onesti. E grazie anche di aver sottolineato che si sta discutendo tra amici. L'invito in Afghanistan, non ho bisogno di dirtelo, è sempre valido, in ogni momento, anche domani. Io sarò qui sino a fine luglio, mi piacerebbe riceverti all'aeroporto. E veniamo subito, come si dovrebbe sempre fare tra amici, a confrontarci sulle domande che tu poni. «Il ritorno dei talebani - ti chiedi - non è una minaccia sentita e condivisa?». A volte la parole fanno impressione, specie quando regolarmente associate ad aggettivi come «mostrouso» o «orrendo». Sappiamo, tu me lo insegni, quanti «mostri» sono stati creati ad arte con la manipolazione mediatica, ricordiamo gli ex amici diventati mostri, e gli ex mostri di nuovo amici. Gli afgani hanno subito il giogo dei talebani. Ma per la maggioranza dei cittadini afgani, che cosa è cambiato cinque anni dopo la loro caduta? Nell'Afghanistan «libero e democratico» gli afgani hanno votato - magari quattordici volte, come l'infermiere che ha vinto la gara «io voto più di te» tra il nostro staff di Kabul - ma hanno anche visto altre cose succedere, spesso per la prima volta, nella loro città e nel loro Paese. Il «Presidente dell'Afghanistan», risaputo consulente della petrolifera Unocal nonché del Pentagono stesso, ha una «guardia presidenziale» composta da cittadini Usa che lavorano per la DynaCorp, uno dei tanti subcontractors, ditte private che si occupano di «sicurezza» e che pullulano di ex militari e spie ancora in attività. Sempre a Kabul, in cinque anni (dall'inizio della «guerra al terrorismo»), gli affitti delle case sono aumentati di oltre dieci volte, la città è tra le più inquinate al mondo, ogni giorno si ammazzano tre bambini, fatti a pezzi dai convogli del nuovo business e da quelli militari (in divisa o no) che hanno la regola di sicurezza (la propria!) di non fermarsi in caso si investa qualcuno. Nella capitale sono aumentate enormemente la violenza e la delinquenza comune. È arrivata la prostituzione. Circolano molte droghe pesanti. Si inizia a parlare di Hiv e di rischio Aids. È arrivata anche la medicina a pagamento. Grazie alla World Bank, a Kabul già la settimana dopo la caduta dei Talebani. Medicina privata. In un Paese di 25 milioni di abitanti che portano a casa mediamente 10 dollari statunitensi al mese, in un Paese che in oltre trent'anni di guerra ha visto 4 milioni di rifugiati, 2 milioni di morti, oltre 1 milione di disabili, si sta costruendo - con i «soldi degli aiuti» - la medicina a pagamento: chi ha soldi può curarsi (male), gli altri crepino pure. Anche questo hanno visto e stanno pagando i semplici cittadini afgani, bambini donne e uomini. Effetti collaterali della democrazia? Forse, ma solo un demente potrebbe accettarli. Migliaia di civili ogni anno (molti di più che ai tempi della guerra tra taleban e mujaheddin) sono stati dilaniati dalle esplosioni. Per non parlare dei diecimila civili morti nei primi sei mesi della «liberazione», polverizzati dalle bombe della libertà. Non ti stupisca allora, caro Furio, se la maggioranza degli afgani non vede il ritorno dei Talebani al potere come una «minaccia»: per molti sarebbe «meglio», per altri è «una speranza», alcuni perfino pregano perché succeda. Molti non hanno simpatia alcuna per i Talebani, ma giudicano ancora peggio il fatto che il loro Paese sia militarmente occupato da stranieri. E l'avversione e l'insofferenza stanno crescendo, fino alla rivolta. I «disordini» del 29 maggio - una dozzina di morti e più di cento feriti civili, da colpi d'arma da fuoco, settantuno dei quali sono arrivati al Centro chirurgico per vittime di guerra di Emergency - non erano manifestazioni «talebane», non c'era alcun agitatore o «terrorista» a sobillare la folla. Non ce n'era bisogno. È bastato loro aver vissuto cinque anni di «liberazione». Mi piacerebbe discutere con te di queste costanti spirali che portano, ogni volta che si sceglie la «guerra come strumento», al risultato paradossale di far apparire «desiderabili» perfino quei regimi di terrore che il terrore della guerra si proponeva di soppiantare. Abbiamo paura di dire la verità, di ammettere che moltissimi iracheni cambierebbero volentieri la loro vita di oggi con quella nell'Iraq dominato dal «mostro dittatore» (che allora però era ancora «l'amico Presidente»)? Dobbiamo trovare il coraggio di dire che anche qui sono in molti a rimpiangere i taleb, quando vedono - ed è questo il senso profondo di quei «disordini» - i ferenji (gli stranieri) decidere il futuro degli afgani.Ci stupisce? Ci stupisce l'insofferenza di una popolazione che ha visto guerra per decenni, e che vede ora altri eserciti combattere una nuova guerra chiamandola pace? Stupiti o meno che ne restiamo, loro - la maggioranza degli afgani - la pensa così. I militari stranieri, anche i militari italiani, come abbiamo sperimentato, sono considerati forze di occupazione, e sono un bersaglio. Qui in Afghanistan c'è la guerra, e minaccia di intensificarsi nei mesi a venire. L'Italia, che ruolo vuole avere? Da che parte dovrebbe stare? «Provengo da un paese - ha detto recentemente a Montecitorio la deputata afgana Malalai Joya - che ancora brucia tra due fuochi: da una parte ci sono i criminali fondamentalisti dell'Alleanza del Nord sostenuti dal governo americano, dall'altra i talebani e i terroristi di Al-Qaida».E noi, a chi decidiamo di «affittare» i nostri fucili, ai «criminali fondamentalisti» contro i «talebani terroristi»? Sarebbe questo l'obiettivo e il senso della nostra presenza? Anziché cercare un proprio «ruolo nella guerra», anziché rincorrere formule per non scontentare alleati-padroni, l'Italia potrebbe fare altro. Il nostro Paese ha la cultura e le risorse umane per un gesto di pace, per stare dalla parte dei disgraziati, poveri, martoriati cittadini dell'Afghanistan, di quelle persone il cui destino ci interessa e ci angoscia. E se provassimo a sperimentare approcci diversi «nell'aiutare l'Afghanistan»? Si potrebbero trovare, magari a fatica, soluzioni che non prevedano l'uso di militari, iniziative basate su una discussione e un confronto (che richiede i suoi tempi) con tutte le componenti della società afgana, progetti condivisi come priorità dai cittadini afgani, non solo voluti e caldeggiati dai tagliagole di turno. Perché non togliere i militari e con calma ricostruire l'immagine che ci piace gli altri abbiano dell'Italia? O qualcuno pensa che il più bel «made in Italy» siano i fucili mitragliatori? Mantenere la truppe in Iraq e in Afghanistan sta costando oltre 100 milioni di euro ogni mese al Paese dove si ritengono impossibili aumenti retributivi di 100 euro. Emergency, una piccola ma importante realtà qui in Afghanistan, dal 1999 ha fornito assistenza a un milione e centomila pazienti e spende ogni anno circa 6 milioni di euro per offrire assistenza gratuita nei suoi tre ospedali chirurgici (Panchir, Kabul, Lashkargah), nel Centro di Maternità (Anabah), nelle 27 cliniche e posti di pronto soccorso, nelle carceri. Con i soldi già spesi per mantenere qui le truppe, avremmo potuto dare ai cittadini dell'Afghanistan (non al despota di turno) 300 ospedali, 5.000 scuole e 3.000 Centri di servizi sociali per i disabili, per le vedove e le donne emarginate, per gli anziani, per i tanti orfani di guerra. Non parlo solo di costruire edifici, ma di attivare strutture, di fornire servizi qualificati addestrando lo staff nazionale afgano. Senza blindati né elicotteri da combattimento, sarebbero bastate la passione e la competenza di molti italiani, ingegneri e architetti, infermieri e medici, tecnici e amministratori. I convogli disarmati di Emergency possono ancora oggi spostarsi dal Panchir a Lashkargah (attraversando regioni interamente sotto il controllo dei talebani) senza alcuna scorta, senza temere attacchi. Può fare lo stesso il personale militare italiano «in missione di pace»? Mi attribuisci «la speranza un po' folle» di voler «unire due percorsi»: ospedali da un lato, e una «responsabile decisione politica che non sia di abbandono» dall'altro. Può darsi, ma non credo si tratti di follia. C'è dell'utopia, certo. C'è l'ostinata utopia di credere che dobbiamo porre in fretta nell'agenda della specie umana - e fare in modo che entri anche nella agenda dei Governi - la costruzione di una società dalla quale sia bandito l'uso della violenza di massa, del terrorismo come della guerra. Ci si arriverà se incominciamo ad agire in questa direzione, una volta dopo l'altra, ogni volta. Iniziando, ad esempio, col ritirare tutti i militari italiani (che tristezza invocare «ombrelli» e «accordi» per giustificare la partecipazione ad una guerra!) e impegnarci da subito per disegnare una «via italiana pacifica» per gli aiuti ai Paesi in maggiore difficoltà. E a fine mese che succede, col voto sul rifinanziamento della missione militare? Continuo a sperare in un segnale di cultura, di civiltà, di «ripudio della guerra». Se invece, per qualsiasi ragione «della politica», il Governo italiano deciderà di trovare comunque un ruolo per le nostre truppe, per non irritare presunti alleati o autentici padroni, il nostro Paese avrà perso una occasione importante per affermare una cultura nuova. Si temono terremoti politici, qualcuno crede che la «stabilità» politica italiana debba essere la priorità nell'orientare le nostre scelte sull'Afghanistan. Che cosa vorrebbero dall'Italia e dagli italiani i cittadini dell'Afghanistan? Che li aiutassimo a campare, e se possibile a campare un po' meglio, oppure ci stanno chiedendo di stabilizzare il regime di Karzaj? E noi, vogliamo un'Italia «stabile» o un Paese che rifiutando la guerra potrebbe incominciare - finalmente - a chiamarsi davvero «civile»?

Progresso e felicità


Il Corriere della Sera ha pubblicato i risultati di una ricerca dell’inglese New Economics Foundation (NEF), un gruppo di opinione che si occupa di economia, ambiente e temi sociali. La NEF ha ideato un nuovo indice del benessere globale misurando il progresso in rapporto al grado di soddisfazione delle persone e alla capacità di sviluppo eco-compatibile. In poche parole un indice della felicità. Si tratta di una ricerca innovativa che mette in discussione i misuratori economici classici e fornisce una visione più approfondita rispetto ai concetti di progresso e di ricchezza (o povertà). E si scopre che le persone possono vivere a lungo, felici e senza depauperare il pianeta. L’analisi ha portato alla compilazione dell'Happy Planet Index (HPI), classificando le condizioni di 178 Paesi. I risultati della ricerca si possono trovare sul sito www.happyplanetindex.org.
L’Happy Planet Index si calcola moltiplicando la soddisfazione di vita per l’aspettativa di vita, il risultato viene diviso per l’impronta ecologica. La soddisfazione di vita è la misura dei fattori che influenzano il benessere, l’aspettativa di vita è calcolata tenendo conto del tasso di mortalità alle diverse età mentre l’impronta ecologica è un indice che misura la capacità di sviluppo con il minimo danno ambientale.
Al primo posto della classifica dell’HPI troviamo Vanuatu, un piccolo arcipelago con poco più di duecentomila abitanti che si trova a sud dell'Oceano Pacifico, 1.750 chilometri a est dell’Australia e 500 chilometri a nord-est della Nuova Caledonia. Vanuatu ha un'economia basata sull'agricoltura e sul turismo ed un Prodotto Interno Lordo pro capite inferiore a tremila dollari.
Che al primo posto nella classifica della felicità si trovi un arcipelago del Pacifico uno se lo può anche aspettare, quel che non ci si aspetta è che l’Italia occupi il 65° posto! E Spagna, Inghilterra, Francia e Germania sono ancora più indietro mentre per trovare gli Stati Uniti bisogna scendere al numero 150!
Ma le sorprese non sono finite qui, Cuba, che viene quasi sempre descritta come un specie di campo di concentramento, si trova al sesto posto! E se non fosse per il basso punteggio del parametro economico che riduce a valori medi il coefficiente della soddisfazione di vita, le cui cause sono in gran parte dovute al vergognoso embargo imposto dagli USA, schizzerebbe al primo posto con largo margine di vantaggio su tutti. Altro dato significativo è quello riguardante la Russia e gli altri Paesi dell’ex Unione Sovietica che si trovano in fondo alla classifica in compagnia di alcuni Paesi africani. Forse l’abbandono di alcune importanti conquiste sociali ed il passaggio all’economia capitalista buttando il bambino con l’acqua sporca non ha giovato molto....
In conclusione, io penso che questa ricerca faccia finalmente giustizia delle solite classifiche che credono di giudicare il benessere dei Paesi e delle persone con parametri quali il Pil e il conto in banca. L’uomo ha sì bisogno di buone condizioni economiche ma la qualità di vita è fortemente condizionata da altre importanti esigenze che nella nostra società è molto difficile soddisfare.
Mi torna in mente un bellissimo discorso pronunciato da Luis Sepùlveda, il grande scrittore cileno che vive nelle Asturie, il 19 gennaio 2002 a Torino quando gli venne conferito il Premio Grinzane Cavour. Sepùlveda racconta dell’incontro avuto a Cojimar, piccolo porto ad est dell’Avana, con Goyito Fuentes il vecchio pescatore amico di avventura di Hernst Hemingway che a lui si ispirò per scrivere “Il vecchio e il Mare”. Goyito racconta a Sepùlveda di essere innamorato della letteratura che definisce “il modo di usare bene le parole, lasciarle libere ed oneste, perché le parole vogliono essere libere ed oneste”. Proseguendo nel suo discorso il grande scrittore cileno racconta di come Goyito Fuentes gli parlò del suo strumento portatile per riconoscere gli amici ed i nemici della letteratura, uno strumento infallibile che ha sempre custodito gelosamente e che non l’ha mai tradito. Nel mio girovagare per il mondo alla ricerca delle condizioni di vita degli uomini nei diversi Paesi, mi sono servito anch’io di un mio personale strumento per misurare il grado di felicità delle persone, uno strumento che mi è stato tramandato dai miei avi, uno strumento sempre a portata di mano e facile da usare: osservare l’espressione del viso delle persone. Non c’è parametro migliore per capire quanto un popolo sia soddisfatto delle proprie condizioni di vita. Un parametro che dà dei risultati in forte contrasto con quelli basati sul Prodotto Interno Lordo e molto simili all’Happy Planet Index.
(Grazie a Riccardo per aver segnalato questa ricerca sul suo blog)

13.7.06

Il Manifesto viva


Annalisa mi ha mandato una mail con allegati due interessantissimi documenti. Uno è l'editoriale pubblicato sul Manifesto a firma di Mariuccia Ciotta e Gabriele Polo nel quale i due giornalisti illustrano la drammatica situazione economica in cui versa il glorioso quotidiano comunista che da trentacinque anni si è eretto ad antidoto contro i rischi di omologazione del pensiero. Ho pensato di pubblicare l'articolo in questione poi, navigando sul sito del giornale, mi sono imbattutto in un intervento di Adriano Celentano. Convinto che i frequentatori di questo Blog conoscano l'editoriale di Mariuccia Ciotta e Gabriele Polo in quanto ampiamente diffuso, ho ritenuto di pubblicare l'articolo di Celentano perchè viene da un personaggio che non può essere tacciato di comunismo ed il contenuto del suo intervento mi è parso molto significativo.
Ovviamente invito tutti a sostenere il Manifesto perchè non possiamo permetterci il lusso di perdere una delle poche voci fuori dal coro.

Il manifesto è rock
di Adriano Celentano
«Quattro ore di fila per ritirare una pensione di 12mila e ottocento lire ...», diceva Memmo Dittongo a Gino Santercole nel film «Yuppy du»: «neanche un vestito salta fuori»... meno male che non ho famiglia con tanti disgraziati... se non c’era Felice che mi prestava il suo... " Felice ero io... Era il 1970 quando scrissi il dialogo della scena in cui i due amici impersonavano due poveracci che sognavano di essere due operai specializzati. Un lusso che per il fatto di essere irraggiungibile li faceva sentire diversi... in un certo senso emarginati, radiati dalla società: «se tu eri un operaio» diceva Santercole, «ce l’avevi un bel vestito, doppio petto...». Ma questa era solo una finzione cinematografica, mentre fuori invece, fuori dal cinema, nella realtà di quegli stessi anni o giù di lì, un gruppo di intellettuali di sinistra capeggiati da quelli che tutt’ora sono considerati i grandi vecchi del manifesto, venivano radiati dal partito per aver espresso delle forti critiche alla linea comunista di allora. Un atto clamoroso, se si pensa che tutto questo avveniva quando ancor a l’Unione sovietica era molto potente. Un dissenso che per la Russia di allora voleva dire scandalo, pericolo, sgretolamento. Ma i grandi vecchi non si diedero per vinti e per tutta risposta, assieme ad altri, fondarono il manifesto. Parliamo di Rossana Rossanda, Valentino Parlato e Luigi Pintor, che Berlinguer considerava il più grande giornalista italiano; forse perché tutti e due erano sardi... Inizia così, quindi, la straordinaria avventura dell’unico giornale senza padrone ossia, senza azionisti di maggioranza, con un’indipendenza assoluta e uno spirito di gruppo che non ha precedenti nella storia dell’editoria, non solo italiana, ma credo mondiale. La differenza fra il manifesto e le grandi testate tipo il Corriere della Sera, Repubblica, Il Messaggero, La Stampa e altri, sta nel fatto che i direttori di questi ultimi, anche se stimati e molto apprezzati per la libertà con la quale dirigono il giornale, hanno pur sempre alle loro spalle degli azionisti di maggioranza che, come una spada di Damocle, pende sulle teste dei validi Giulio Anselmi, Ezio Mauro, Paolo Mieli, ecc. Una differenza che apparentemente sembra minima, ma che nasconde invece la tragica possibilità, che improvvisamente gli azionisti di maggioranza si riuniscano per sbattere fuori Paolo Mieli in quanto non più in linea con l’oscuro pensiero da cui essi stessi dipendono: il business... il Capo supremo per eccellenza a cui non si può e non si deve disobbedire. Un capo naturalmente diverso da quello che ha il manifesto a cui invece si obbedisce in base a una credenza, un’ideologia, sia liberale, marxista o cattolica non importa, purché in ognuna prevalga l’onestà intellettuale di chi la professa e, nel manifesto, naturalmente non lo posso dire con certezza, ma da alcuni segni che traspaiono dalla storia di questo giornale, tutto fa pensare che questa onestà ci sia veramente. Per esempio lo si può intuire dal fatto che lì tutti, sia giornalisti che tecnici, guadagnano tutti uguali e, soprattutto poco... un nobile sacrificio che tuttavia pare non bastare a sorreggere la vita di questo singolare quotidiano che proprio in queste ore, rischia di chiudere per mancanza di mezzi. A oggi la sua vendita in edicola è di sole 30mila copie, con un contributo pubblicitario di appena il 10% quando si sa che oggi nessun giornale potrebbe reggere senza la partecipazione di almeno il 40% della pubblicità. Strano l’atteggiamento dei pubblicitari... Cos’è che vi da fastidio a tal punto da non considerare il manifesto come veicolo promozionale? Un errore tattico che da parte vostra proprio non mi aspettavo. La genialità dei vostri microspettacoli che mette addirittura in serio imbarazzo chi di spettacolo invece ha perso ogni traccia sia alla Rai che a Mediaset, non può accostarsi, se non altro per un senso di sintonia e di eleganza, alla genialità dei titoli ormai famosi del manifesto. Ne ricordo qualcuno in particolare, quando per lanciare l’immagine del giornale, il manifesto fece una campagna con la foto di un bambino che dormiva coi pugni chiusi, come fanno i bambini quando dormono. Sotto la foto una scritta che diceva: La rivoluzione non russa... E poi, ancora, quando il ministro Tremonti dopo le sue dimissioni, apparve sul manifesto con il titolo «Ciao tesoro»! Ma la cosa più stupefacente che credo rimarrà nella storia dei titoli, e anche i cattolici non possono non apprezzare la grande ironia, è quando il Papa è stato eletto: «Il pastore tedesco». Geniale. La storia della prima e della seconda guerra mondiale raccontata in due parole... Chi fa della pubblicità non può non considerare, per quanto non condivida la sua linea politica, il valore di quella fascia di élite a cui arriva un giornale come il manifesto il quale, nonostante la sua bassa tiratura, entra nei ranghi di coloro che contano nei punti cardine della società. Cosa ti importa, se sotto la testata del manifesto c’è ancora la parola comunista? Il tuo compito no è quello di far sì che il tuo messaggio arrivi a toccare tutte le fasce della società e, se possibile anche quelle del mondo animale? Voltaire diceva: «Io non condivido niente di quello che dici, ma darei la vita perché tu lo dica»!

9.7.06

Siamo una squadra fortissimi


Siamo una squadra fortissimi
fatta di gente fantastici
e nun potimm' perde
e fa figur' e mmerd'
perché noi siamo bravissimi
e super quotatissimi
e se finiamo nel balatro
la colpa è solo dell’albitro
Siamo una squadra furbissimi
fatta di gente drittissimi
e nun vulimm' perde
e fa figur'e mmerd'
perché noi siamo bravissimi
e superquotatissimi
e se qualcuno ci ostacola
ce lo diciamo alla Cupola.
No, non è una mia poesia, è il ritornello di una canzone di Checco Zalone, cantata anche in midley da Baglioni, Consoli, Gazzè, Venditti, Belli, Ruggeri, Ramazzotti e Jovanotti.
La potete trovare sul sito di radio DJ http://www.deejay.it/dj/home
Io la trovo perfetta per descrivere il clima che si è creato attorno al calcio e alla nazionale azzurra che questa sera incontra la Francia per la finale dei mondiali.
Su questi campionati e su calciopoli si è scritto talmente tanto che pensavo di non toccare l’argomento ma la tentazione, a poche ore dalla finale e dopo avere ascoltato questo brano, è stata fortissima.
L’argomento meriterebbe molte pagine visto che rispecchia uno spaccato della cultura italiana, ma per mancanza di tempo e spazio mi limiterò ad alcune considerazioni.
Quando ci fu lo scandalo del calcio-scommesse tutti dissero: mai più! Non sono passati molti anni e rieccoci! Il calcio pulito da tutti invocato sembra proprio non esistere. Io penso che nel vortice di miliardi che sommerge lo sport professionistico sia impossibile che questo avvenga. O si torna allo sport per puro diletto o ce lo dobbiamo tenere così com’è. Da parte mia, capita l’antifona, ho smesso da molti anni i panni del tifoso e cerco di vedere lo sport con gli occhi dell’esperto, visto che in gioventù ho praticato parecchie discipline e tutt’ora dedico parte del poco tempo libero di cui dispongo alla squadra di calcio del mio paese ed alleno pure i bambini piccoli cercando di trasmettere loro l’amore per la pratica sportiva fatta per puro divertimento. Ed i ragazzi, quando non vengono manipolati da qualche adulto sconsiderato, giocano per divertirsi e con l’unico obbiettivo di vincere la partita.
Tornando ai mondiali, questa sera la nostra Nazionale si gioca la possibilità di vincere per la quarta volta l’ambito trofeo. Dal mio punto di vista questi mondiali sono stati piuttosto deludenti e penso che sia lecito pretendere qualcosa di meglio da professionisti strapagati quali sono la maggior parte dei partecipanti. Le uniche squadre che mi hanno convinto sono state Spagna e Argentina che però sono uscite dal torneo molto presto. E questo fa parte del gioco. L’Italia è partita malissimo, giocando male contro squadre mediocri ed è riuscita ad arrivare in finale grazie ad un calendario favorevole e a non poca fortuna. C’è da dire però che partita dopo partita il gruppo è andato crescendo, la partita contro la fragile Ucraina è stata quantomeno dignitosa e contro i tedeschi si è disputato uno dei pochi incontri meritevoli di essere seguiti. I nostri cugini francesi hanno esordito ancora peggio, sono riusciti a superare per il rotto della cuffia il girone di qualificazione agli ottavi, poi hanno superato i favoriti brasiliani giocando una buona partita, secondo me più per demerito dei carioca, da sempre i miei preferiti ma quest’anno irriconoscibili, che per meriti propri. Nella semifinale contro il Portogallo non hanno fatto vedere molto di buono anche se sono riusciti a superare i bravi lusitani. Che succederà stasera tra i francesi che hanno il senso del primato e gli italiani che hanno quello del cinismo? Che vinca il migliore? “Speriamo di no” diceva l’indimenticabile Nereo Rocco. Il grande ex capitano della Germania Franz Bekenbauer dice che noi siamo costretti a vincere, la psicologia della statistica parla di cicli positivi ogni dodici anni e quest’anno è un dodicesimo anno, nella nazionale francese giocano molti calciatori “nostri” che conosciamo bene, i nostri cugini puntano tutto su Zenedine Zidane che disputa stasera la sua ultima partita ma in semifinale è sembrato molto stanco, gli azzurri nelle ultime partite hanno dimostrato di mettere in campo una grande volontà ed un grande cuore anche per rispondere sul campo alla scarica di immondezza che i giornali tedeschi ci hanno scagliato contro. Infine, il gruppo è coeso e nel calcio conta il gruppo, un insieme che Lippi ha il merito di far funzionare benissimo, il gruppo è cresciuto tantissimo ed il nostro tecnico ha la grande capacità di utilizzare al meglio gli uomini a disposizione. Ieri ha detto che preferirebbe essere chiamato allenatore di cervelli, una definizione più adatta ai ragazzi di via Panisperna che ad un allenatore ma che illustra bene il suo pensiero. Poi si sa che gli italiani sono meravigliosi nelle sventure! Tutto questo fa ben sperare i nostri tifosi: la vittoria l’è porga alla chioma. Intanto il simpaticissimo Totti dice che a lui la tranquillità dà tranquillità (chissà se il nervosismo gli dà nervosismo…). Dovrebbe essere un incontro avvincente ma cavalleresco, dovremmo dimenticarci quello che ci ha fatto Vercingetorige e soprattutto quello che noi abbiamo fatto a lui, in fondo siamo tutti fratelli, anzi, siamo cugini. Ma come si sa le faide famigliari durano una vita e sono feroci….
Aldilà del risultato rimane il problema ben riassunto dallo scrittore Mario Benedetti che parla di calcio come anestesia e della necessità di non dimenticare. Il calcio, definito anche arma di distrazione di massa, è in grado di far dimenticare qualsiasi cosa ed è riuscito a fare sparire dai notiziari persino il tormentone dell’aviaria. Mentre la nostra coppia più forte in campo, Buffon e Cannavaro, pensano ad auto-emendarsi, Gattuso, che non ha piedi fini ma cuore grande ed è uno dei pochi che non ha dimenticato le sue origini, sostiene che l’eventuale vittoria non deve servire ad assolvere i colpevoli. I garantisti invitano gli investigatori a non avere fretta ma bisogna anche tenere presente che la gente dimentica in fretta ed il tempo aiuta a dimenticare.
Io, che osservo le partite con occhio da tecnico e cerco sempre di essere neutrale, sarei comunque felice se gli azzurri portassero a casa la coppa, soprattutto per i milioni di tifosi che sperano da tempo in questo evento, ma vorrei invitare ad evitare patriottismi fastidiosi ed enfatizzazioni che non fanno bene a nessuno. Cerchiamo di andare oltre gli stereotipi ed i luoghi comuni e non dimentichiamoci che Capello se ne è andato un momento prima che tirassero lo sciacquone….

5.7.06

Latinoamerica


Esce in questi giorni il numero 94/95 della rivista "Latinoamerica e tutti i sud del mondo" diretta da Gianni Minà.
Latinoamerica è una rivista trimestrale che, fedele alla linea della sua storia ventennale, si occupa del continente a sud degli Stati Uniti, ampliando il suo panorama anche ad altri sud del mondo, annientati economicamente e socialmente dal mercato neoliberale e dalla globalizzazione.Il nuovo editore G.M.E. Produzioni srl, si avvale della collaborazione di alcune delle firme più significative della letteratura e dell'impegno civile in america latina: Luis Sepúlveda, Eduardo Galeano, Paco Ignacio Taibo II, Roberto Retamar, Daniel Chavarria, Miguel Bonasso, Mempo Giardinelli, Emir Sader, Frei Betto, Rigoberta Menchù, Adolfo Perez Esquivel, Dante Liano e anche scrittori e saggisti nord americani ed europei come Noam Chomsky, Peter Tompkins, Wayne Smith, Gennaro Carotenuto, Antonio Tabucchi, Giulietto Chiesa, Giulio Girardi, Alex Zanotelli, Ettore Masina, Pino Cacucci ed altri che ben conoscono l’universo latinoamericano e i sud del mondo.
Questa rivista non dovrebbe mancare tra le letture di coloro che intendono ricercare la realtà dei fatti che si nasconde dietro l'informazione ipocrita ed interessata della grande stampa occidentale.
Gianni Minà, giornalista, conduttore televisivo, è nato a Torino nel 1938. Ha collaborato con quotidiani e settimanali italiani e stranieri e ha realizzato per la Rai centinaia di servizi e interviste nelle trasmissioni più diverse, da TV7 a Blitz. È autore di film documentari su Mohammed Alì, Fidel Castro, Che Guevara, Rigoberta Menchù e il subcomandante Marcos. Dal 1996 ha diretto "Tuttosport" e ha realizzato per Rai Due il programma di interviste Storie.
Recentemente Gianni Minà è intervenuto alla terza giornata della Festa della Cooperazione e della Solidarietà Internazionale al parco della Repubblica, Modena. A conclusione del suo intervento ha detto che c'è un solo Paese al mondo dove non ci sarà mai un colpo di stato, e questo Paese sono gli Stati Uniti. Ha poi spiegato il perchè: perchè negli Stati Uniti non c'è l'Ambasciata USA....
La rivista non si trova in edicola, per abbonarsi consultare il sito http://www.giannimina-latinoamerica.it/ .