Fidel Castro: Concetto di Rivoluzione

Revolución
Es sentido del momento histórico;
es cambiar todo lo que debe ser cambiado;
es igualdad y libertad plenas;
es ser tratado y tratar a los demás como seres humanos;
es emanciparnos por nosotros mismos y con nuestros propios esfuerzos;
es desafiar poderosas fuerzas dominantes dentro y fuera del ámbito social y nacional;
es defender valores en los que se cree al precio de cualquier sacrificio;
es modestia, desinterés, altruismo, solidaridad y heroísmo;
es luchar con audacia, inteligencia y realismo;
es no mentir jamás ni violar principios éticos;
es convicción profunda de que no existe fuerza en el mundo capaz de aplastar la fuerza de la verdad y las ideas.
Revolución es unidad, es independencia, es luchar por nuestros sueños de justicia para Cuba y para el mundo, que es la base de nuestro patriotismo, nuestro socialismo y nuestro internacionalismo.

Fidel Castro Ruz (1ro de mayo del 2000)

24.10.06

Gillo Pontecorvo, la battaglia di Algeri ed il mondo di oggi


Di Gillo Pontecorvo, il grande regista recentemente scomparso, non è che se ne sia parlato molto. Aldilà della retorica che sempre accompagna la morte di un personaggio famoso, non è stata colta l’occasione per dibattere sull’attualità della sua opera. Il suo film più conosciuto è sicuramente La battaglia di Algeri. Il film di Pontecorvo descrive in maniera quasi documentale una delle più sanguinose lotte anti-imperialiste del secolo scorso, la ribellione, dal 1954 al ’62, del popolo algerino contro il dominio coloniale francese. Durante il conflitto durato 8 anni le forze armate francesi e le loro milizie alleate uccisero un milione di algerini. A Parigi il governo socialista, il cui ministro dell’interno era François Mitterrand, emanò l’Atto di Poteri Speciali che dava alle forze armate carta bianca in Algeria. Assassini, torture e stupri erano all’ordine del giorno. Un generale francese si vantò così: “Ci venne data libertà di fare ciò che consideravamo necessario.” Decine di migliaia di uomini, donne e bambini innocenti vennero torturati, ad Algeri più di tremila persone sono scomparse dopo essere state arrestate dai francesi. Per attuare il programma di “pacificazione” i francesi espulsero due milioni di algerini dalle proprie case, molti li confinarono in campi di concentramento circondati da filo spinato, e distrussero più di ottomila villaggi. Quasi due milioni di soldati francesi furono impiegati nel conflitto, tra loro l’attuale presidente Jacques Chirac e Jean-Marie Le Pen, il leader razzista del “Fronte Nazionale”. Le Pen fu accusato di essere stato uno dei torturatori di prigionieri nel 1957.
Rivedendo il film di Pontecorvo non ho potuto fare a meno di notare la perfetta similitudine tra quanto descritto dal regista quarant’anni fa e quanto sta avvenendo oggi. L’oppressione colonialista contemporanea sembra ripetere alla perfezione un copione ormai drammaticamente sperimentato nel secolo scorso. Gli assedi, le retate di massa e le torture mostrate nel film, prefigurano gli attacchi militari d’Israele sui palestinesi e i metodi usati dalle forze armate statunitensi in Irak e in Afganistan.
Quando il film uscì per la prima volta in Inghilterra e negli Stati Uniti, le scene che mostrano la tortura con la fiamma ossidrica, l’elettroshock, e l’affogamento parziale dei prigionieri furono censurate. Inoltre viene usata della musica assordante per soffocare le grida delle vittime, una tecnica impiegata dalla polizia militare e dai servizi segreti statunitensi ad Abu Ghraib e Guantanamo.
Ad agosto del 2003 il dipartimento di Operazioni Speciali e Conflitto a Bassa Intensità del Pentagono decise di mostrare La Battaglia di Algeri ai propri dipendenti. Ciò accadde dopo l’intensificarsi della di resistenza irachena contro le forze armate statunitensi e alla conseguente richiesta del Segretario della Difesa americano Donald Rumsfeld di “migliorare l’intelligence” attraverso interrogatori in Irak e altrove. David Ignatius, scrivendo per il Washington Post, fece l’assurda dichiarazione che era un “segnale di speranza che le forze armate pensano creativamente e anticonvenzionalmente sull’Irak.” Il vero scopo della proiezione del film era invece quello di incoraggiare attacchi militari e torture ancora piú sadiche ed illegali sui prigionieri.
Se chi ha il compito di informare non sa cogliere nell’opera di un artista le similitudini con gli eventi che oggi drammaticamente stanno terrorizzando il pianeta, non ci resta che renderci conto che stiamo vivendo in un regime dove la propaganda mediatica è diventata un’arma micidiale al servizio dell’imperialismo. Ci hanno sempre raccontato di come la dittatura fascista, il nazismo ed il comunismo sovietico abbiano utilizzato la propaganda per ottenere il consenso delle masse. Ma se abbiamo il coraggio di giudicare senza ipocrisie il comportamento degli attuali mezzi d’informazione, non possiamo che renderci conto che quelle propagande erano da dilettanti al confronto di quelle impiegate oggigiorno. Proviamo a pensare come la “cultura” americana abbia ormai contaminato ogni angolo del pianeta per raccontare al mondo della grande bontà del “paese più democratico del mondo” che si sacrifica per estendere la democrazia a quei paesi che si ostinano a negarla. Pensiamo alla diffusione di film, libri, musica e quant’altro, che hanno invaso il pianeta per raccontarci la loro favola. Questa “democrazia” non ha bisogno di usare i classici mezzi coercitivi per indurre chi opera nel campo dell’informazione e della diffusione dei prodotti culturali a “lavorare” per loro. Utilizzano i più grandi mezzi di persuasione che siano mai esistiti: il denaro ed il mercato. Se stai con loro avrai fama e soldi, se ti metti contro avrai fame e morte.
Dopo il propagandato “Libro nero del comunismo”, se ne avessi le capacità, il tempo ed i mezzi, scriverei il “Libro nero dell’Imperialismo”. Ci sarebbe molto da raccontare su come l’imperialismo USA sia intervenuto e stia intervenendo, e con quali mezzi, per imporre i propri interessi e la propria volontà a tutti i popoli del pianeta. Visto che per una sola persona sarebbe un’opera titanica, sarebbe il caso di scriverlo tutti insieme. Un’opera collettiva frutto del lavoro di quell’universo progressista formato da tante persone semplici, onesti lavoratori, artisti, giornalisti, scrittori e uomini di cultura. Anziché ognuno a coltivare il proprio orticello, tutti insieme a raccontare la pura verità, per un’opera che sia di monito a tutte le generazioni presenti e future. Perché l’impegno di tante persone che, come Gillo Pontecorvo, hanno speso la loro vita per la costruzione di un mondo migliore, non vada disperso, travolto dall’ondata di spazzatura che sta sommergendo il pianeta. Ovviamente Gianpaolo Pansa non sarà dei nostri….

19.10.06

Gennaro Carotenuto sull'offensiva delle destre in America Latina

Gennaro Carotenuto ha pubblicato questo articolo sul suo blog<www.gennarocarotenuto.it>. Penso che meriti molta attenzione e che sarebbe il caso di mobilitarsi prima di doverci ritrovare a discutere su avvenimenti che sconvolgono quando ormai non c'è più rimedio.

America Latina, arriva la mano pesante delle destre
di Gennaro Carotenuto
Desaparecidos, dossier falsi, servizi segreti in azione, brogli elettorali, la battaglia all’ONU, un colpo di stato imminente in Bolivia e la vita minacciata di militanti e dirigenti politici. Per la primavera latinoamericana arriva l'ora della prova contro la reazione.
La primavera latinoamericana a più d’uno era sembrata una festa. I movimenti sociali si facevano governo in maniera così facile da far dubitare del perché non fosse successo prima. Presidenti eletti per caso, come l'argentino Nestor Kirchner, si sono rivelati capaci di aggregare consenso e cancellare impunità. Movimenti radicali -figli di atavici sacrifici- come i senza terra brasiliani, fanno prudentemente politica. Perfino un colpo di stato organizzato con tutti i sacri crismi, quello dell'11 aprile 2002 a Caracas, è stato spazzato via dalla democrazia partecipativa della rivoluzione bolivariana. A Mar del Plata, a fine 2005, movimenti popolari e nuove classi dirigenti hanno gridato, insieme ai governi, un inaudito "no" all'ALCA e a George Bush. Argentina e Brasile hanno chiuso i loro conti con l’FMI: non vogliono più consigli interessati e l'integrazione regionale disegna un continente che mette finalmente al primo posto l'inclusione sociale.
Le destre di sempre hanno incassato colpi, via via più concreti, al privilegio e all'impunità. Ma il 2006, anno elettorale fondamentale, sta dando segnali di una sistematica reazione sotto forma di una nuova guerra sporca. Non può esserci ancora un nuovo Piano Condor, ma i segnali sono molteplici, diseguali, mutevoli eppure omogenei, e da non sottovalutare.
Il caso più grave è quello boliviano. I rumori di sciabole e le intromissioni straniere, da quelle degli “amici” di Petrobras a quelle nemiche di Tony Blair che, agente politico di British Petroleum, invita all’aperto boicottaggio della Bolivia, restringono i margini di manovra del presidente Morales. Non sono solo gli errori del governo –come quelli nella politica mineraria- a far temere il precipitare della situazione. Afferma a chi scrive Rafael Puente, per otto mesi vice ministro degli interni di Evo Morales: “la stessa vita del Presidente è nelle mani del nemico. La Bolivia di fatto non ha intelligence, ma sono attivi i servizi segreti di vari paesi, a cominciare da quelli cileni. Il presidente può essere ucciso da un francotiratore, dal tradimento di qualcuno a lui vicino, avvelenato. La sua vita è a rischio in ogni momento. Riceviamo continuamente rapporti dai servizi venezuelani e cubani in questo senso, ma loro non possono sostituirsi alle nostre carenze”. Il dramma della Bolivia è che uno stato fragile non può produrre un governo meno fragile dello stato stesso. “La nostra primavera potrebbe essere troppo breve” chiude, assorto nelle sue preoccupazioni, Rafael Puente.
Dalla Bolivia all’Argentina, la situazione è diversa. Ma da un mese si sta cercando il primo desaparecido di questa nuova epoca, il n. 30.001. È Jorge López, 77 anni, testimone chiave nel processo che ha condannato all’ergastolo “per genocidio”, Miguel Etchecolatz, simbolo vivente di sadismo, perversione, crudeltà nel torturare con particolare vigliaccheria donne incinte, nel bruciare vivi o buttare in mare uomini legati. Col sequestro López, decine di migliaia di persone, e tutti i testimoni delle centinaia di processi che si stanno celebrando in Argentina, hanno visto la loro vita riportata indietro di 30 anni, al guardarsi le spalle, al cambiare strada ogni volta per tornare a casa, al tornare a vivere nella paura. Quello López è un sequestro chiave perché non è una disperata vendetta di Etchecolatz e dei suoi, ma è una sfida diretta lanciata da uno stato parallelo, che continua ad esistere in democrazia, contro la politica dei diritti umani del presidente Kirchner. Più di 2.000 tra torturatori, familiari e loro supporter politico-economici, sono scesi in piazza a Buenos Aires pretendendo la fine dei processi. “Minacce fisiche, credibili e preoccupanti –ci dice il parlamentare e scrittore Miguel Bonasso- sono arrivate allo stesso presidente Kirchner. Questo dimostra che in Argentina esistono corpi dello stato mafiosi e fascisti ancora attivi e disposti a tutto”. Anche nell’Uruguay del titubante Tabaré Vázquez si registrano segnali analoghi.
In Brasile, Lula da Silva sarà per la seconda volta presidente. Vincerà il ballottaggio contro il candidato dell’Opus Dei e dell’ultradestra economica Geraldo Alckmin che, chissà perché, la stampa europea si ostina a definire socialdemocratico. Ma su quel 49.85% ottenuto da Lula, un capello dalla vittoria al primo turno, e con l’8% conquistato da candidati alla sua sinistra, ha pesato in maniera decisiva un dossier falso attribuito al PT, il partito del presidente. Con ogni evidenza è un’operazione attribuibile a servizi deviati, con la complicità del sistema mediatico, per danneggiare l’immagine di Lula stesso, paradossalmente consolidata e non indebolita da quattro anni di scandali, alcuni veri, molti artefatti. Le destre, che non hanno in questo momento il potere di rovesciare Lula, che è l’architrave di tutta la costruzione progressista latinoamericana, hanno tuttavia il potere di mostrarlo fragile e meno credibile. Non controllando più la macchina statale, e quindi essendo loro preclusi brogli massicci, riescono comunque ad obbligarlo ad un ballottaggio che non doveva avere luogo, attraverso l’uso spregiudicato di apparati dello stato che permangono al servizio dell’antico regime.
Ancor più solida della posizione di Lula è quella di Hugo Chávez. Vada come vada la battaglia per il seggio latinoamericano in Consiglio di Sicurezza alle Nazioni Unite, è chiaro come il sole che la candidatura del Guatemala, che non è uno stato di diritto e dove vivono nell’impunità più totale gli autori del genocidio costato la vita a oltre 200.000 persone, sia una limpidissima operazione neocoloniale: “Siamo noi –afferma con ciò l’Ambasciatore statunitense all’ONU, John Bolton- a decidere chi deve rappresentare l’America Latina in Consiglio di Sicurezza”. Come sempre. Che il Guatemala (leggasi Stati Uniti) sconfigga o no il Venezuela, le ragioni di un mondo multipolare emergono chiarissime e sono tutte dalla parte di Chávez. Fotografano lo spregio degli Stati Uniti per l’America Latina tutta, e la disposizione ad utilizzare ogni arma nella contesa più importante, quella del 3 di dicembre, le elezioni venezuelane, che riconfermeranno alla presidenza Hugo Chávez. “Secondo tutti i calcoli e i sondaggi indipendenti –ci rivela il Ministro della Cultura venezuelano, Francisco Sesto- il candidato dell’opposizione unita, Manuel Rosales, può al massimo aspirare alla metà dei voti sui quali conta Chávez”. Rosales può arrivare ad un terzo dei voti, forse qualche punto in più, ma ha già perso.
E a cosa serve un candidato perdente alle destre venezuelane e a quelle forze, Stati Uniti e Fondo Monetario Internazionale in testa, che con quelle destre ordirono il colpo di stato dell’11 aprile 2002? In America Latina può essere utile a molte cose. Fu utilissimo, per esempio, Luís Donaldo Colosio, il candidato perdente del PRI messicano, assassinato dai suoi a Tijuana nel 1994 e che lasciò il posto ad Ernesto Zedillo, che riuscì alla fine ad evitare l’arrivo alla Presidenza del candidato di sinistra, Cuauhtémoc Cárdenas. Più che un Rosales vivo e straperdente contro Chávez, segnalano da settimane molteplici fonti riservate, potrebbe essere un Rosales morto ammazzato –magari dopo sondaggi fittizi che gli diano speranze di vittoria- il cavallo ideale per debilitare Chávez e per lanciare una campagna mondiale che lo accomuni definitivamente ai paria del mondo e apra le porte a una balcanizzazione del Venezuela con l’aiuto colombiano.
Dal Messico del neofalangista Felipe Calderón (ben altra pasta rispetto al gerente della Coca-Cola Vicente Fox), arriva una lezione classica: il controllo degli apparati dello stato è chiave per evitare i brogli accertati delle destre, che hanno impedito ad Andrés Manuel López Obrador –e forse anche ad Ollanta Humala in Perú e Rafael Correa in Ecuador- di giungere alla Presidenza. Ma anche in Messico gli apparati sono un’entità cangiante. Carmen Lira, direttrice del quotidiano La Jornada, ci racconta il momento chiave di due mesi di protesta di milioni di messicani, scientificamente ignorati da una stampa internazionale che –in condizioni identiche ma opposte- tanto s’era commossa per gli arancioni di Kiev: “quando Vicente Fox ha dato ordine all’esercito di reprimere –e sarebbe stata un’altra Tlatelolco- è dimostrato che i vertici dell’esercito hanno chiesto al presidente di mettere per iscritto l’ordine. Quando questo si è negato, l’esercito, per la prima volta nella storia, si è rifiutato di obbedire”. Successe già in Venezuela nel golpe del 2002 che l’esercito si spaccasse e si schierasse con la Costituzione; molteplici segnali di lealtà giungono da altre forze armate nel continente, profondamente cambiate per appartenenza sociale dall’inverno neoliberale. Viene la reazione e sarà pesante. Ma forse la primavera latinoamericana ha già più fiori di quanto un inverno tardivo possa gelare.

18.10.06

La democrazia secondo La Repubblica


Gennaro Carotenuto è stato costretto a chiudere i commenti dei lettori sul suo blog <gennarocarotenuto.it> a causa di volgari attacchi alla sua persona da parte di alcuni frequentatotori del blog. Continua però a fare informazione consapevole pubblicando sul blog interessanti articoli, analizzando le tematiche della politica internazionale con competenza e lucidità, oltre ad una rara onestà intellettuale. Gennaro Carotenuto svolge attività di ricerca e didattica in Storia Contemporanea, Geopolitica e Storia dell'America Latina alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell'Università di Macerata. Dal 2000 è professore invitato presso la Facoltà di Humanidades dell'Università della Repubblica (Montevideo, Uruguay). Ho pensato di riportare questo suo interessante articolo per dare la possibilità a chi volesse di commentarlo su questo blog.
La Repubblica, Guido Rampoldi e il lupo Hugo Chávez
Di Gennaro Carotenuto.
Oggi è possibile che il Venezuela rilevi il posto dell'Argentina nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In realtà è probabile che succeda solo nei prossimi giorni sconfiggendo la candidatura alternativa voluta dagli Stati Uniti del Guatemala. Ma il solo fatto che il Venezuela sia così audace da proporsi - in una normale rotazione- desta scandalo.
Per esempio Guido Rampoldi, in prima pagina su La Repubblica, scrive un editoriale che intitola "La sinistra latina che vorrebbe Chavez (scritto senza accento per tutto l'articolo, sic!) all'ONU". Riferendosi al voto dell'Italia, tutto l'articolo può essere sintetizzato in un motto: "ci converrebbe appoggiare Chávez, ma per favore non fatelo".
Oltre alla solita serie di insulti a Chávez non giustificati e non spiegati, il più neutro dei quali è "imbarazzante", Rampoldi, che sarei curioso di sapere se legge lo spagnolo, centra alcuni punti del dibattito. In particolare individua quello che sarebbe un dilemma del governo italiano che avrebbe interessi economici a votare per Chávez ma per "ideale" (ri-sic!) non dovrebbe votarlo. Per Rampoldi da una parte c'è la sinistra radicale che spinge a votare Venezuela, dall'altra la Margherita che vuole il Guatemala a sua volta appoggiato da Bush. E' una brutale semplificazione, ma non importa.
Rampoldi riesce a dire che il Guatemala non è uno stato di diritto (evviva!), ma in fondo è sempre meglio del Venezuela che -pur essendo pienamente uno stato di diritto- ha relazioni addirittura con il paria Ahmedinejad e di ritorno ha perfino fatto scalo a Minsk, capitale che in Italia ha oramai una stampa peggiore della Berlino hitleriana.
Fantastico Rampoldi... lui non sa che Ahmedinejad incontra Prodi come incontra Chávez e che l'Italia, come partner economico per l'Iran, è ben più importante del Venezuela. Se Italia e Germania fanno affari in Iran si scrive nelle pagine economiche e si fanno i complimenti, se li fa il Venezuela è una minaccia per il mondo ed è oggetto di scandalo.
Rampoldi glissa il più possibile sul fatto che quello che unisce Venezuela e Iran è da un lato un comune -e più che legittimo- interesse energetico, ma dall'altro c'è l'essere entrambi assediati dagli Stati Uniti. Questi, appena quattro anni fa, organizzarono un colpo di stato a Caracas e minacciano quotidianamente di aggredire militarmente il Venezuela.
Una volta per tutte, caro Rampoldi, è più antiamericano Chávez o è più antivenezuelano e antilatinoamericano Bush?
Non mi risulta che né Chávez né alcun membro del governo venezuelano abbia mai minacciato di morte il presidente degli Stati Uniti. Invece lo ha fatto esplicitamente l'autorevole esponente del partito repubblicano, reverendo Pat Robertson. Non mi risulta che dal Venezuela si inciti al rovesciamento violento del governo degli Stati Uniti come invece si fa quotidianamente dagli Stati Uniti per il Venezuela.
L'unica cosa che è capace di individuare Rampoldi è l'antiamericanismo di Chávez. Teme forse che Chávez possa utilizzare l'ONU per denunciare che negli Stati Uniti è stato appena messo tra parentesi (per usare un eufemismo), il primo e più sacro dei diritti umani, l' "habeas corpus"? Sarebbe un bello scandalo e Chávez sarebbe effettivamente molto imbarazzante. Teme forse Rampoldi che Chávez possa usare il palcoscenico delle Nazioni Unite per denunciare il colpo di stato che gli Stati Uniti stanno organizzando in Bolivia?
Rampoldi non è grossolano come altre penne del suo quotidiano. Pur non sapendo nulla di Venezuela e di America Latina -e perché diavolo gli fate scrivere editoriali sul Venezuela?- capisce che qualcosa sta cambiando e prova a fotografarlo. Intuisce che le tappe bruciate da Chávez rivelino la sconfitta dell'unilateralismo statunitense e disegnino un mondo multipolare. Purtroppo non ha gli strumenti per capire quanto desiderabile sia per questo pianeta un mondo multipolare dove magari un giorno gli Stati Uniti accettino l'onta di ascoltare perfino le ragioni del Venezuela.
E' incerto se scandalizzarsi per il fatto che un paese del Sud utilizzi la propria ricchezza per fare politica estera (e solidale). Capisce che non si può accusare qualcuno di fare a fin di bene qualcosa che gli Stati Uniti fanno da tutta la vita a fin di male, e preferisce tenere un profilo basso.
Solo alla fine, come chiosa, Rampoldi porta a termine il compitino: "per quanto brutta sia la destra venezuelana [...] è difficile capire come sia divenuto un eroe democratico un presidente bonapartista [come Chávez]".
Caro Rampoldi, se vuoi davvero capire, lascia perdere gli epiteti e leggi qualche buon saggio sulla democrazia partecipativa. Ti farebbe bene. Del resto vivi in un paese (gli Stati Uniti) dove poche lobby multimilionarie comprano e vendono candidati e fanno presidenti in un bipartitismo perfetto e immutabile, come al mercato delle vacche. Del resto sei cittadino di un paese (l'Italia) dove una ventina di persone di destra e di sinistra, lo scorso aprile hanno scelto uno a uno i mille parlamentari inscatolandoli in liste bloccate che i cittadini dovevano solo prendere o lasciare. E' comprensibile che la democrazia per te sia un ricordo lontano.
Ma c'è speranza. Vai nell'America Latina desertificata dal neoliberismo e vai nel Venezuela dell'inclusione sociale e forse, se non ci andrai con i paraocchi tipici dell'europeo... forse lo capirai perfino tu perché Chávez è divenuto un eroe democratico

12.10.06

Angelicamente anarchico


Di Don Andrea Gallo, o meglio Andrea come lui ama farsi chiamare, avevo sentito parlare già molti anni fa. Si diceva di lui come di un prete scomodo che voleva vivere a modo suo la vocazione sacerdotale. Le persone scomode mi hanno sempre affascinato perché chi è scomodo al potere è sicuramente persona carica di valori difficilmente riscontrabili in coloro che si adeguano facilmente allo status quo. E Don Andrea ha manifestato fin dall’inizio della sua esperienza sacerdotale una particolare predilezione a vivere a fianco degli ultimi, i poveri , gli emarginati, cercando di sviluppare un metodo educativo scevro da ogni forma di coercizione. Conosciuto anche per la sua grande amicizia con Fabrizio de Andrè, Don Andrea con il grande cantautore genovese prematuramente scomparso, condivideva anche il pensiero libertario. Non a caso il suo ultimo libro è titolato “Evangelicamente anarchico”. Nessun titolo si addice così bene alla personalità del suo autore. In questo testo autobiografico don Gallo afferma che il posto di un prete “e' fra la gente: in chiesa, per strada, in fabbrica, a scuola e in ogni dove vi sia qualcuno che soffra e che abbia bisogno di aiuto”. Di conseguenza lui ha deciso di percorrere la sua strada insieme ai tossici, alle prostitute, ai deviati, ai balordi, ai border-line, ai migranti e a tutti coloro che, come diceva De Andre' "viaggiano in direzione ostinata e contraria". La lotta al disagio ed alla droga, la politica e la globalizzazione, sono i temi che ad Andrea stanno più a cuore. E l'anarchia. Che secondo lui e' uno stato dell'animo, una categoria dello spirito.
Tra le cose che non dimenticherò mai e che custodirò gelosamente dentro me fino all’ultimo dei miei giorni, c’è sicuramente l’incontro con Andrea Gallo. E’ successo lo scorso febbraio in occasione dell’incontro pubblico organizzato dall’Associazione culturale ‘l Ghirù, Associazione di cui sono uno dei soci fondatori e che è formata da un piccolo gruppo di amici che condividono la passione per l’impegno sociale e politico, impegno tanto indispensabile tra le vallate valtellinesi caratterizzate da una forte prevalenza del pensiero reazionario.
Passare una serata con Andrea è qualcosa di indimenticabile. La sua carica umana, l’innata curiosità, il suo desiderio di far capire che l’impegno e la semplicità sono armi formidabili per combattere i potenti, la voglia di fare e di investire sul futuro come se fosse un giovane ventenne e il suo incredibile ottimismo, sono talmente rari da trovare tutti insieme in una stessa persona che avere la fortuna di conoscerlo è veramente qualcosa di indimenticabile. Quando ci siamo salutati alla fine della serata è come se avessi salutato un amico d’infanzia. Tale è il suo modo di farti sentire completamente a tuo agio e la sua grande capacità di trasmettere calore umano e semplicità.
Raccontare la sua vita sarebbe impresa che richiede parecchio tempo, perciò mi limiterò a descrivere i fatti più salienti che caratterizzano la sua lunga storia.
Don Andrea inizia il noviziato nel 1948 a Varazze e prosegue poi il Liceo e gli studi filosofici a Roma. A 25 anni chiede di andare in missione in Brasile ma dopo un anno è costretto a rientrare in Italia a causa del clima insopportabile che si era venuto a creare in seguito alla feroce dittatura militare. Un anno dopo viene nominato cappellano sulla nave scuola Garaventa, un riformatorio per minori, dove cerca di sostituire i soliti metodi rieducativi basati unicamente sulla repressione, con l’introduzione di un’impostazione educativa molto diversa, dove fiducia e libertà sono alla base del tentativo di recupero dei ragazzi. Questi parlavano con entusiasmo di questo prete che dava loro il permesso di uscire, andare al cinema e vivere momenti comuni di autogestione. Ma i superiori, guarda caso, dopo tre anni lo rimuovono dall’incarico.
Viene in seguito nominato cappellano del carcere di Capraia e successivamente destinato in qualità di vice parroco alla chiesa del Carmine. Nel 1970 viene nuovamente trasferito per ordine del Cardinale Siri. Quello che si voleva far passare per un normale avvicendamento di sacerdoti, era in realtà una punizione per la sua scelta di uscire dai canoni classici del sacerdozio per privilegiare il suo impegno con gli emarginati e per le contraddizioni che questa sua scelta apriva all’interno della chiesa genovese. La sua predicazione irritava parte dei fedeli e preoccupava la Curia, a cominciare dallo stesso Cardinale. Si pensava che i contenuti della sua predica "non erano religiosi ma politici, non cristiani ma comunisti". Andrea non si limita a predicare dal pulpito, ma mette in pratica le sue idee invitando i fedeli a fare altrettanto. La parrocchia diventa presto un luogo di aggregazione per molti giovani ed adulti, i più poveri ed emarginati della città vi trovano solidarietà ed un punto d’incontro e di ascolto. La sua chiara collocazione politica fa si che la parrocchia diventi un punto di riferimento per molti di quei militanti che si riconoscono nella nuova sinistra.
Ma il provvedimento di espulsione non si fa attendere. L’occasione viene fornita da una predica in seguito alla scoperta di una fumeria di hashish nel quartiere. Prendendo spunto da questo fatto che aveva suscitato l’indignazione dell’alta borghesia genovese, Andrea ricordò nella sua predica di ben altre droghe. Droghe molto diffuse ma che non creavano nessuna indignazione. Per esempio quelle di certo linguaggio che definisce "inadatto agli studi" un ragazzo figlio di poveri, oppure “un’azione in difesa della libertà” bombardare popolazioni inermi. Fu subito accusato di essere un comunista e di aver superato il limite. La Curia decide di allontanarlo dal Carmine e questo provvedimento provoca nella parrocchia e in tutta Genova, un forte movimento a suo sostegno. Ma la Curia non arretra dalla sua decisione e lo destina all'isola di Capraia per isolarlo definitivamente.
Andrea rinuncia all’incarico e pur dovendo lasciare la parrocchia non abbandona il suo impegno. L’enorme manifestazione di solidarietà che gli venne attribuita dalla gente scesa in piazza per difenderlo, diventa un incoraggiamento a riaffermare i suoi ideali ed a proseguire nella sua battaglia. Qualche tempo dopo dà vita alla Comunità di S. Benedetto al Porto. Qui vengono accolti tutti coloro che si trovano in situazione di disagio, con particolare attenzione al mondo della tossicodipendenza, degli alcolisti e del disagio psichico. Sin dall'inizio la Comunità ha voluto essere una presenza sul territorio e suo scopo fondamentale è quello di offrire una proposta di emancipazione da ogni forma di dipendenza, all'interno di una partecipazione e confronto critico con il sociale e con il politico. La Comunità ospita oltre cento residenti che svolgono molteplici attività quali il ristorante, la bottega dell’artigianato, e iniziative di solidarietà con i popoli dell’America Latina.
Andrea ha scelto da quale parte stare: quella degli ultimi e degli emarginati, quelli magistralmente cantati dall’amico Fabrizio. La stessa parte che aveva scelto Gesù. Oggi si definisce “un prete da marciapiede” perché è lì che ogni giorno ed ogni notte cerca la speranza in compagnia delle persone bisognose d’aiuto che incontra.
La scelta, anche politica, di Don Andrea è basata non tanto sul credo di un’ideologia, ma sui valori. Lui ritiene che l’ideologia può smarrirsi mentre i valori della pace, della giustizia e dell’equità sociale non potranno mai smarrirsi ed essere confusi. La sua grande speranza è quella che arrivi un giorno in cui saremo tutti un po’ meno ricchi, perché è convinto che il povero ha una speranza non condizionata mentre il ricco spera solo che ciò che ha non venga meno. Per questo si dice certo che non ci sarà mai giustizia finché tutti non diventeremo più sobri e giusti, più parsimoniosi e più poveri.
Per questo io amo questo prete da marciapiede angelicamente anarchico.

7.10.06

Incontro in difesa dell'umanità


Dall’11 al 13 ottobre avrà luogo a Roma il IV Incontro di intellettuali ed artisti in Difesa dell’Umanità che fa seguito a quello tenuto a Caracas nel dicembre di due anni fa. L’incontro si svolgerà presso la sede della FAO in Viale delle Terme di Caracalla. Consiglio coloro che abitano nella capitale e dintorni di non perdere questo interessantissimo avvenimento. Saranno presenti numerosissime ed importanti personalità del mondo intellettuale ed artistico.
Qui sotto pubblico un documento diffuso dagli organizzatori dell’evento.

Aspettative del comitato organizzativo per il dibattito a Roma 2006 In Difesa dell’Umanità
A Roma, nella cui collina di Monte Sacro accadde una delle prime ribellioni popolari civico militari dell’umanità e dove emerse il pensiero di libertà e indipendenza del futuro Libertador Simón Bolívar, umanisti del mondo si riuniranno per cercare di costruire un’offensiva basata sulla resistenza millenaria dei popoli, che permetta di definire lineamenti a carattere universale, rispettuosi della diversità e della pluriculturalità, sopra i quali generare nuovi meccanismi di azione e di lotta per la difesa dell’umanità. Gli umanisti, come lavoratori sociali, dobbiamo lottare attivamente affinchè si rafforzi, attraverso la ragione, l’impero della giustizia sociale: unica maniera di raggiungere la pace e assicurare il rispetto, la dignità, la solidariettà e la tolleranza tra tutti gli esseri umani nella terra.
Oggi l’umanità vive tempi drammatici di irrispetto verso il diritto internazionale, sotto lo sguardo indifferente e complice delle Nazioni Unite, mentre la mediocrità e la codardia utilizza leader di alcune delle principali potenze economiche e militari del mondo. In modo sfacciato non si rispettano gli Accordi della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra e protezione delle popolazioni civili, e con la scusa di combattere il terrorismo si cerca di legittimare la violazione dei più elementari valori e principi della dignità umana, attentando al diritto all’autodeterminazione dei popoli, la sovranità delle nazioni, il diritto alla vita, il diritto all’informazione veritiera ed opportuna; tutti quelli che sono trasgrediti in forma sistematica e unilaterale.
Attualmente centinaia di milioni di esseri umani sono oggetto di aggressioni da parte delle principali potenze del mondo, in forma diretta o indiretta. Invasioni, occupazioni, guerre, estorsioni ed altri meccanismi sono esercitati impunemente contro popoli interi al fine di controllare le più importanti fonti di energia fossile in America, Africa e Medio Oriente. Si tratta di una spirale di pazzia e silenzio “complice”, che danneggia molti paesi come il Venezuela, Irak, Iran, Afganistan, Libano, Palestina, e Sudan, tra gli altri; tutti essi vittime della prepotenza e desiderio di dominazione imperialista di queste potenze che, in nome della loro particolare democrazia e del loro interessato concetto di libertà, esibiscono le loro politiche intervenzioniste e un chiaro terrorismo di stato nel mondo, riempendo l’umanità di morte, miseria, povertà e fame. Mentre le altre Nazioni, non invase o aggredite militarmente, vengono sottomesse con debiti esteri immorali e ingiusti, o meglio, attraverso il controllo di altre fonti di materia prima, delle loro fonti idriche e biodiversità, così come del ricatto economico, imposizione di trattati commerciali unilaterali, con norme disuguali di commercio internazionale imposte dalla OMC, e con la concentrazione dei mezzi di comunicazione ed il sequestro della verità, collocandola al servizio della disinformazione, il razzismo, la xenofobia e la discriminazione religiosa, tra gli altri.
Coscienti del peggioramento delle condizioni di vita del pianeta, gli intellettuali del mondo pianifichiamo di nuovo un incontro, il cui obiettivo è quello di impegnare tutta la forza del pensiero e della creazione con la causa della giustizia e la pace nel mondo. I tempi che viviamo non ci permettono solo di dichiararci indignati davanti all’ingiustizia, sono tempi di accordi, impegni e azioni concrete, che ci obbligano ad integrarci con umiltà ed in forma attiva nelle associazioni e nelle organizzazioni di base esistenti in tutto il mondo, senza protagonismi individuali e disposti a conoscere ed accompagnare le lotte dei popoli invasi, dei lavoratori, dei contadini, dei disoccupati, degli sfruttati e sfruttate, degli emarginati, delle donne e uomini, dei popoli indigeni e non, degli afro-discendenti, arabi, emigrati e immigrati, minoranze sessuali, bambini abbandonati, di coloro che reclamano pane e dignità, gli anziani, le persone diversamente abili, vittime del commercio sessuale; principali protagonisti della lotta sociale in difesa dell’umanità.
Di fronte alle sfide che ci impone il debito del passato e quelle del presente e del futuro, abbiamo unito gli sforzi per riunirci nel 2006 a Roma, nella vecchia Europa, quando si compiono sessanta anni dalla creazione della frustrata e tradita Unione di Nazioni presso la sede della FAO, dove si suppone che il mondo dovrebbe pianificare, realizzare ed unire volontà politiche ed economiche per abolire la fame nell’umanità - una realtà ogni giorno più distante, con il fine fondamentale di coordinare le nostre azioni e dare uno speciale riconoscimento agli attivisti intellettuali, artisti e movimenti di base dell’Africa, e ai popoli e governi della Repubblica Bolivariana del Venezuela e della Repubblica della Bolivia per il loro sforzo a costruire un processo di emanicipazione democratico e pacifista di giustizia sociale, di equità e pace, a partire dal protagonismo popolare e dai loro movimenti partecipativi che si sviluppano tra i popoli del Sudamerica; un riconoscimento inoltre per il popolo cubano e per il suo Comandante Fidel, per il suo esempio costante di decenni di lotta contro l’impero, molte volte quasi in solitudine, ma con la dignità ed il coraggio di chi ha la giustizia e la ragione dalla sua parte.
Rodrigo O. Chaves S.